Anche quest’anno, al termine delle vacanze estive, ci si è trovati quasi immediatamente di fronte a quella specie di totem monolitico e un po’ terrorizzante che è “il mese delle sfilate”. Un mese. Nello specifico dal 9/9 di New York al 7/10 di Parigi.
Ad ogni tornata (il pilota automatico stava scrivendo “tornata elettorale”, il che è inquietante) c’è sempre una “big thing” molto attesa che si spera riservi qualche scarica adrenalinica anti routine: alla fine, per tutti gli addetti, il rischio della noia irritativa c’è, fra le decine di presentazioni, gli spostamenti sul filo del ritardo perenne e gli orari impossibili.
Un labirinto di nevrosi, se osservato dall’esterno, ma chi ci si trova dentro ci sta bene, in fondo.
E aspetta la prossima “big thing”, che di solito è qualche debutto, perché gli stilisti e i direttori artistici spesso si trovano velocemente nella condizione di stare
“come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”,
e allora riparte l’allegro calcio mercato per i posti vacanti, con tutto ciò che ne consegue al momento del debutto con diversa livrea.
Ma questa volta no, qualche avvicendamento in Italia – che non è il centro del mondo – e nessun sommovimento tellurico nei brand internazionali, nessun redivivo eccellente e nessuna celebrity ansiosa di farsi massacrare dalla stampa pur di fregiarsi del titolo di “direttore artistico”.
Questa volta l’avvenimento é la sfilata di Givenchy aperta (anche) al pubblico.
Sfilata eccezionalmente a New York – nella vagamente simbolica data dell’11/9 e in contemporanea con l’apertura del nuovo flagship store.
Celebrazione anche dei 10 anni di Riccardo Tisci alla guida della maison, in un allestimento sui tetti ideato da una forse non più credibilissima Marina Abramovich, con alberi, casse, materiali di scarto e pedane di legno, e pazienza se un paio di modelle sono volate a terra (sfortuna, di solito escono indenni da passerelle ben più estreme).
A tutto ciò hanno potuto assistere circa 1200 persone accreditate via internet.
Veramente non è la prima volta che accade, già una trentina di anni fa lo fece Thierry Mugler, nel momento in cui alcuni creatori francesi intuivano che le sfilate non erano soltanto una presentazione ai compratori, ma anche uno strumento di comunicazione, via via sempre più spettacolare (fatturato permettendo).
In questi 30 anni più o meno sono cambiate molte cose, e ora l’accesso alle immagini delle sfilate è immediato.
Nel 2009 le prime sfilate trasmesse in diretta streaming da marchi “di peso”, Alexander McQueen e Louis Vuitton, show veri e propri quanto diversi (visionario il primo, hollywoodiano il secondo); ora lo fanno praticamente tutti, credendoci o per dovere, ma in ogni caso bisogna esserci e subito, mentre neanche tanti anni fa si sarebbe protetta l’esclusività dell’evento con l’uso delle armi.
Eppure l’idea del possibile accesso allo spettacolo “live” ha creato il buzz, la possibilità di vedere in diretta qualcosa di molto simile a una performance teatrale in versione accelerata, il fascino dell’uscita in passerella delle modelle, il sentimento di aspettativa e di attesa che precede, enfatizzato dalla scenografia, dalla musica, e dal rituale un po’ isterico messo in atto dalla popolazione degli addetti ai lavori, espressione di un mondo sostanzialmente autoreferenziale che trasforma la “drammaturgia” in “liturgia”, e che auto-alimenta il mito, ebbene, tutti questi fattori, insieme alla “materia prima”, gli abiti, i colori, le stampe, i ricami ecc., generano ancora la voglia di dire “c’ero anch’io”.
Non voglio pensare che fosse soprattutto la curiosità di vedere dal vivo le celebrities ospiti della griffe.