I due dischi che ho ascoltato di più in questo periodo sono stati “Carrie and Lowell” di Sufjan Stevens e “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit” di Courtney Barnett.
E mi piace pensare che siano due dischi speculari.
Quello di Sufjan Stevens è un disco di domande a cui nessuno darà mai una risposta. Soprattutto convincente.
Quello di Courtney Barnett è un disco di certezze, sul mondo e su stessa.
Partiamo dalle domande di Sufjan Stevens.
Il disco nasce dal sentimento di nostalgia per la madre morta che, anche in vita, non è mai stata molto presente e costante nella sua vita.
In “Fourth of July” si chiede:
“Era solo un travestimento? Come alle medie?
Quando era tutto finzione, futuro e previsioni?
Dove sono adesso?
Che cosa avrei potuto dire per farti tornare dal mondo dei morti?”
Ancora in “The Only Thing”, le domande sono ancora più spiazzanti:
“Sotto un velo di enormi sorprese; mi chiedo, mi hai mai voluto bene?
Sotto un velo di enormi sorprese; come posso vivere assieme al tuo fantasma?”
E sono sempre le domande senza una risposta che continuano in ” Drawn to the Blood”:
“Che cosa ho fatto per meritarmi questo?
Com’è successo?”
Insomma Sufjan ci dice che la sua vita è una continua domanda, ma sa anche che ogni risposta possibile sarebbe solo una menzogna.
Ripenso ad un verso scritto da Jeanette Winterson: “Alle domande più importanti, alle domande con più di una risposta, o alle domande senza risposta, è più difficile far fronte col silenzio. Una volta formulate non evaporano lasciando la mente a più serene meditazioni. Una volta formulate acquistano dimensione e consistenza, fanno inciampare per le scale, svegliano nel cuore della notte. Un buco nero risucchia quanto c’è intorno e neanche la luce gli fugge. Allora meglio non fare domande? Meglio allora essere un maiale soddisfatto che un Socrate infelice?”
E quindi nel disco “Carrie and Lowell” non troverete facili certezze da manuali di auto-aiuto, ma la descrizione di come si provi a sopravvive con i nostri dubbi.
Invece il sito Ondarock ha così descritto il disco di Courtney Barnett: “Pensa un po’: quest’anno la next big thing della scena indipendente è una ragazza di Melbourne, con un taglio di capelli normale, una faccia acqua e sapone, e tanto sarcasmo rimasticato per lunghi, oziosi pomeriggi.”
E in effetti i suoi lunghi e prolissi testi sono pieni di certezze.
Nel singolo “Pedestrian At Best” canta:
“Mi sento offesa, sto avendo una crisi temporal-esistenziale,
Voglio essere felice, e l’ora legale non risolverà questo casino.
Lavoro troppo poco e faccio troppo sesso, devo esprimere il mio disinteresse.
I ratti mi sono tornati in testa, che cosa avrebbe detto Freud?
Mettetemi su un piedistallo e non farò che deludervi.
Datemi tutti i vostri soldi e ci farò un origami.
Siete uno scherzo, penso, ma non vi trovo molto divertenti.”
In “Dead Fox” sentenzia:
“Jen insiste per farci comprare verdura organica
E devo ammettere che inizialmente ero un po’ scettica:
Un po’ di pesticida non può far male.
Dato che non ho mai troppi soldi, al supermercato prendo la roba che costa poco
Ma è tutta piena di merda,
Un amico mi ha detto che mettono nicotina nelle mele.”
In “Debbie Downer” è spietata nei confronti di se stessa:
“Invecchio ogni volta che batto le palpebre.
Sono noiosa, nevrotica, tutto ciò che disprezzo.
Se è quello il tipo di persona che voglio diventare.
Se non sarò felice sarò contenta di essermi tenuta gli scontrini.”
E così teniamoci stretti questa artista e la sua spiccata ironia che è l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza.
Ma senza drammi.