Siamo normalmente portati a dire “concerto dal vivo”.
Dopo quello che è successo sabato sera a Parigi, vivrò sempre una strana sensazione di disagio quando sentirò ripetere quest’espressione.
L’avvenimento mi ha turbato molto di più di altri fatti di sangue avvenuti in passato, come ad esempio nelle metropolitane o negli aerei.
Perché ha colpito il “mio” mondo.
Per me un concerto è sempre stato “il miglior posto del mondo, in cui non può accadere niente di brutto” come diceva Audrey Hepburn in nel film “Colazione da Tiffany” riferendosi alla famosa gioielleria.
Ma mi sbagliavo.
Avevo un idea distorta e idealizzata della realtà.
E a vacillare sono sempre le idee buone. Le convinzioni rassicuranti.
Solo i preconcetti negativi sembrano essere sempre più dogmatici: l’Africa ha l’Aids − L’America del Sud ha la droga − l’Islam ha il terrorismo − il Terzo mondo ha il debito.
E di colpo sembriamo tutti impregnati solo di “male”. Siamo tutti degli ostaggi, siamo tutti dei terroristi. E lo siamo da sempre. Dai tempi dei padroni e degli schiavi.
Come cantano i Baustelle: “Sono millenni che da scimmie cazzeggiamo col potere”.
Ma per ammansire le scimme a volte basta una banana, anche quella disegnata da Andy Wharol per la copertina del disco dei Velvet Underground.
E la musica dovrebbe servire proprio a questo, renderci migliori. Migliori, perchè più consapevoli.
Quel meraviglioso disco ci aveva sicuramente reso migliori perchè ci aveva restituito consapevolezza dell’inferno privato che poteva patire un tossicodipendente.
Una delle canzoni di quel disco finiva con il verso: “quelli che siedono e piangono per tutte le feste di domani”
E allora anche in questo momento così emotivamente forte cerchiamo si essere migliori con la consapevolezza che domani,- non oggi, certo – ma ci saranno altre feste, altri concerti, altra musica.
“Hai davanti una canzone nuova / e una città per cantare”, come cantava Ron.
L’arte dovrebbe servire proprio a non morire di realtà.
In questi giorni pieni di commenti suoi social la cosa che mi sento di condividere l’ha citata sul suo profilo la scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti: “Tutti cerchiamo di evadere dalla nostra soggettività. È uno dei motivi per cui esiste l’arte, farci vedere delle parti di noi connesse con quelle degli altri esseri umani, ora e per sempre, permettendoci di dimenticare la nostra condizione solitaria e disconnessa per un po’. Ci fa sentire riconosciuti, e non è poca cosa. Ma quello che mi faceva il bombardamento televisivo di eventi violenti era completamente diverso. Non mi faceva andare oltre la mia soggettività, anzi, la mia persona si dilatava al punto da includere il mondo intero, espandendosi fino a un punto di rottura. Diventavo permeabile, ferita e annientata. Ecco cos’era questo coinvolgimento emotivo debilitante: un annientamento, non un’affermazione” – tratto da “Stone Arabia” di Dana Spiotta.