Del come inserire se stessi nel proprio lavoro.
Non sto parlando della facile moda del mostrarsi per mostrarsi, ma del “mettere qualcosa di sé” in quello che si fa; di essere sinceri, di crederci, di affrontarsi.
Di non temere, poi, di farlo vedere pubblicamente.
E se vogliamo essere del tutto sinceri, che è proprio il senso di questo post, anche della curiosità di sapere cosa ci vedono gli altri quando ti guardano – perché si, tu che guardi una mia foto stai guardando me, ora lo sai – e scoprire se ci vedono quello che è il senso “mio”, quello che ci ho trovato io.
Attenzione: non che sia così importante che le cose combacino, che la tua interpretazione sia la mia.
Ci mancherebbe.
Anzi, il bello sta proprio nelle rivelazioni che gli altri ti regalano e che portano ancora più domande e ancora più rivelazioni.
Scattare fotografie è una terapia, che mi permette di riflettere ma anche di scoprire e mettere a fuoco nella vita cose di cui non mi ero accorto prima.
Una di queste cose che ho capito scattando fotografie – e forse proprio da qui è nata la serie di Verosimile – è quanto io sia “impressionista”, di quanto io mi curi anzitutto dell’insieme e poi, solo dopo, vi scopra dentro i dettagli.
Un sacco di dettagli.
“Giochi d’ombra” è una metafora delle strutture che stanno alla base del mio essere fotografo.
Ci sono io, ovviamente; poi c’è il bianco – che non è vuoto ma anzi è zeppo di piccoli dettagli che solo da vicino riesci a leggere; ma soprattutto ci sono le strutture e gli angoli e le ombre che sostengono tutto.
Questa è come una foto in assenza di fondale, il palcoscenico spoglio che lascia scoperte le quinte ed evoca la presenza dell’autore tra una recita e l’altra.