Ho messo in vendita il mio primo robot da cucina.
Quando ho visualizzato l’annuncio sul portale on line mi ha fatto strano.
Non vorrei proclamare per forza la fine di un’epoca (da due anni la planetaria lo ha nettamente soppiantato) ma il concetto è un po’ quello…
Che poi, chi è che lo chiama ancora robot? Fa così anni 80!
Ai tempi di mia mamma ti insegnavano a cucinare a scuola, ai miei tempi invece era una competenza fai da te (speravi che tua madre fosse stata attenta alle
lezioni di economia domestica), da acquisire preferibilmente prima di salire all’altare, oggi è l’attività più cool del momento.
Pure troppo per i miei gusti.
E lo dico io, che non sono nessuno ma per me la cucina è, senza ombra di dubbio, la stanza più importante della casa, mai abbastanza ampia.
Ho cominciato con le uova all’occhio di bue e oggi mi ritrovo in piedi alle 2 di notte per sgonfiare l’impasto delle brioche.
Del servizio in argento non me ne faccio niente, i piatti sono quelli di mia nonna e le posate quelle dell’Ikea, la batteria è solo uno strumento musicale per me e le sedie sono vecchie e scompagnate, se qualcuno vuole lo zucchero nel caffè apro il sacchetto di carta e lo piazzo sul tavolo (ma giuro che da qualche parte ce l’ho una zuccheriera) e il piano di lavoro su cui impasto è l’ex scrivania del mio compagno, riciclata, riadattata e piazzata sopra la lavastoviglie, tra il lavandino e il forno.
Ma non fatevi ingannare dalle apparenze: sono come le false magre io… sembro di bocca buona, ma non è mica vero!
Perché io guai a star senza planetaria e cella di lievitazione, senza macchina del sottovuoto e wok, senza tarocchi di varie misure e modelli (non le carte, ben inteso) e leccapentole di tutti i colori, senza fruste elettriche e minipimer, io che guai a togliermi il termometro da forno e i timer digitali, la bilancia al grammo, tortiere di ogni forma e misura e la casseruola in rame per il risotto, e soprattutto che nessuno tocchi, mai e poi mai, le mie lionesi, fautrici della meravigliosa reazione di Maillard… ahh, cosa sarebbe la cucina senza reazione di Maillard?
Sì, sono una diversamente invasata, ma pur sempre invasata.
Eppure oggi, nel mio perenne vagabondare in mezzo a tutto ciò che ha a che fare con la cucina, ho l’impressione del troppo: troppo food e troppo poco cibo, troppe foto, decisamente troppe (bellissime) foto.
E chi cucina lo sa bene: qualsiasi ingrediente, se usato “troppo”, rovina il piatto.
Siamo passati da Suor Germana alla Parodi senza passare dal via.
Un attimo prima era Wilma De Angelis e adesso è Mastechef.
Senza contare le centinaia di foodblogger, i portali on line dedicati al cibo, i web magazine, gli aggregatori di blog, le app, i forum, i social network, le food-community e chi più ne ha più ne metta, in un crescendo di interesse, approfondimento, sperimentazione, divulgazione ma anche di vanità e autocelebrazione, dove il cibo combatte dentro l’arena di un set fotografico per difendere la propria centralità.
Ma perde, sconfitto dalla tazzina vintage che fa tanto pendant con il piatto decorato comprato al mercatino dell’antiquariato.
O almeno, questa è la mia impressione: che il cibo, in alcuni casi, nutra più l’ego che il corpo (o la mente).
Foodblogger lo sono (stata) pure io.
Una foodblogger per modo di dire: quando cucino impasto ingredienti e preghiere, sperando di non combinare pasticci, perché tutto quello che esce dal forno a casa mia si chiama cena.
E solo se va di culo, diventa anche un post.
Ma non è mica scontato.
Certo è divertente.
Finché non cominci a prenderti troppo sul serio.
Finché non ti viene la tentazione di tenere la porzione più fotogenica per gli scatti, (la mattina dopo naturalmente, che c’è più luce).
Finché invece di comprare arnesi da cucina non ti ritrovi dal falegname, a commissionare assi e quant’altro possa esserti utile a creare la scenografia giusta per le foto.
È divertente, e per qualcuno è anche qualcosa di più: la passione ha trovato modo di trasformarsi in un lavoro appassionante e appagante. Chapeau.
Per chi sta dall’altra parte invece, mia mamma per dire, è la possibilità di scoprire e sperimentare ricette nuove (tutte tratte dal blog speziato naturalmente, mai che ne abbia provata una dal mio).
Perché se lo pubblica una foodblogger, il procedimento per realizzare il semifreddo ai tre cioccolati con base di biscuit ai pistacchi e decorazioni di mousse alla vaniglia, hai davvero l’impressione che ci riuscirai pure tu.
Sì certo, però organizzati per bene: il pargolo affidalo alla baby sitter per qualche ora.
Sto invecchiando lo so.
Se inizierò a dire che “si stava meglio quando si stava peggio!” o “più pane e salame per tutti” siete autorizzati a smettere di leggere.
È che non mi piace questa sovraesposizione un po’ forzata e invadente.
Non mi piace nemmeno quel senso di inadeguatezza che provo talvolta navigando in rete, davanti a immagini di piatti che neanche mandando mio figlio in collegio probabilmente riuscirò a rifare e impiattare uguale.
E infine non mi riconosco nella gara a chi trova l’ingrediente più sconosciuto del pianeta.
Passi lo zenzero, ben vengano la quinoa e l’amaranto, e pure il sale al tartufo… ma io mi fermo qui, almeno finché non avrò imparato bene le differenze tra rapa e barbabietola.
Altrimenti è un po’ come con l’abito da sposa: perdi un sacco di tempo e paghi un’eresia per un vestito che indosserai un giorno solo.
E se ti va come a me, divorzi pure!
Ho messo in vendita il mio primo robot da cucina.
Ma io quasi quasi, spero che non se lo compri nessuno!