Hai un lavoro ben retribuito, una bella casa, fai vacanze all’estero prenotate per tempo, hai acquistato le ultime novità in campo della tecnologia che semmai non ti servono ma che devi avere, sei iscritto nella palestra ben frequentata del centro, ospiti gli amici a casa per vedere il meglio dello sport o del cinema perché hai il pacchetto completo di Sky.
Eppure c’è un ma: tutto quello che hai non è quello che realmente vorresti ma solo quello che puoi ottenere grazie al tuo lavoro.
Quindi ciò che ti da sicurezza e benessere è anche ciò che ti rende schiavo: un ossimoro di natura ben indistricabile soprattutto in un epoca nella quale già avere una retribuzione per molti è una chimera.
Improvvisamente la propria quotidianità diventa stretta e sentiamo il desiderio di fuggire, andare via, cambiare vita per poi, spaventati dalle difficoltà, rientrare nei ranghi.
Qualcuno invece di pensarlo l’ha veramente fatto e ci ha pure scritto un libro; si tratta di Simone Perotti autore di “Adesso Basta” storia vera perché propria, di un uomo di successo con stipendio ben retribuito che ad un certo punto della propria vita ha deciso di…riprendersi la propria vita.
E non parliamo di avere preso la palla al balzo dopo un licenziamento, un sottodimensionamento o simili, no no lui all’apice della carriera ha deciso che nel rapporto retribuzione/qualità della vita c’era qualcosa che non tornava, cioè non avere la possibilità di fare quello che realmente gli piaceva; quindi ha preparato per tempo il terreno per disimpegnarsi dalla sua attività facendo diventare il proprio hobby una fonte di reddito, nel suo caso amante della barca a vela è diventato uno skipper, scrive libri sul tema e romanzi, è un blogger.
Detta così sembra farla facile ma è chiaro che per riuscire nell’intento oltre ad una forte dose di volontà ci sono alcuni parametri che hanno la loro importanza, ad esempio quanta disponibilità economica si ha prima di partire, se c’è una famiglia da coinvolgere etc.
Comunque questo desiderio di vivere non solo per la carriera sta prendendo sempre più piede e ormai è conosciuto come downshifting.
Si tratta quindi di un ridimensionamento volontario della propria carriera; l’individuo ossessionato dalla ripetizione meccanica e standardizzata della sua giornata e dall’innalzamento dell’asticella verso obiettivi sempre più “performanti” e “sfidanti”, decide di non essere più parte dell’ingranaggio ma di diventare il centro della propria esistenza.
L’ultima frase che ho scritto sembra, nella sua semplicità, lapalissiana; ma allora perché nel scriverla ci sembra di dire un’ovvietà mentre nel metterla in pratica ci appare di dover scavalcare una montagna?
Quanto siamo disposti, ognuno di noi, a mettere in gioco per deviare da quel percorso che con una concezione quasi biblica pensiamo sia già segnato?