È da tanto che volevo scrivere di Instagram.
Volevo scrivere che mi sento un po’ tradito.
Perché io, in fondo, sono un romantico e sommato al fatto che faccio foto per pura passione da una vita, allo spirito nativo di questo social network un po’ mi ero affezionato.
Ho preso la bici, ho pedalato fino ad una delle piazze di questa località di mare in equilibrio tra un centro storico ordinato ed un lungomare di romagnola memoria.
Mi sono seduto su un muretto, davanti al passeggio rilassato e ai piccoli gruppi di turisti sereni.
La ragazza con il tacco alto blu ha sentenziato che la sposa non può decidere di fare un menu vegetariano perché lei, andando al matrimonio, paga e quindi ha il diritto di mangiare bene.
Da qui è stato tutto chiaro.
Ho capito perché non riusciamo ad arrenderci a qualcosa che potrebbe parlare di noi attraverso una visione intima ma pubblica.
Ho capito perché tutti fanno foto tutte uguali e più sono uguali più se le votano.
Ho capito perché quelli che sono diventati i guru fanno foto sempre più banali ma in compenso aggiungono didascalie ispirate (sarebbe davvero interessante sapere da cosa o se usano Google).
Ho capito perché non hanno capito che il bullismo delle foto scattate con la Canon/Nikon da millemila megapixel, riversate su Instagram, fa quanto meno sorridere.
Ho capito perché non hanno voluto capire che Instagram era/è/dovrebbe essere qualcos’altro rispetto ad una cartella del computer.
Ho capito perché hanno snobbato l’attimo in favore della bella copia.
Ma soprattutto ho capito che è evidente che i tacchi non sono nocivi, specialmente quelli blu.