Per qualcuno la Seconda Guerra Mondiale e i racconti di vita quotidiana in una Italia anni Quaranta, fra alleati che avanzavano ed un esercito tedesco nei nostri territori, sono solo immagini di qualche documentario in bianco e nero o riprese sbiadite trasmesse in Tv nelle ricorrenze più disparate, con il loro carico di emozioni e di parole da parte di superstiti ormai anziani.
Se non ci fosse stato il cinema con i suoi messaggi potenti, penso al film da Oscar di Benigni, ma anche a “La Scelta di Sophie” e a molte altre pellicole, forse sarebbe difficile per le nuove generazioni pensare che solo l’altro ieri le donne non votavano, il pane veniva razionato e che “Il diario di Anna Frank” non è una storia campata per aria.
Io, invece, sono cresciuto con due genitori che non mi hanno concepito da giovanissimi e che, seppur ragazzini, hanno vissuto quegli anni, e li ricordano alla perfezione.
Nelle mie orecchie risuonano i tanti racconti, con una potenza che solo un certo tipo di narrazione può avere, quella che viene dal cuore e dall’esperienza reale di vita.
E così la mia “bambina di ottant’anni” non smetterà mai di dirmi quanto pianse quando la sua casa di infanzia andò a fuoco per un bombardamento. E le sue parole sono sempre così toccanti, che la scena è chiara davanti ai miei occhi: lei piccolissima caricata a forza su un carro, e portata via dalle fiamme e da una guerra troppo grande per lei da comprendere, così poco chiara da avere il sapore del rimpianto di qualcosa che ti è stato strappato.
A lei è stata portata via l’infanzia, glielo leggo sul volto quando mi ripete che il suo dolore più grande è stato quello di non aver potuto salvare il vestito della Prima Comunione, un abito bianco, immacolato, l’abito della Festa, quello dei giochi con gli amici, in un momento dove le luci della ribalta sono accese su di te, dove ti senti grande, ma sei ancora bambina.
L’immagine di lei che fugge da una casa in fiamme, dove dentro stanno bruciando le sue aspettative, i suoi sogni di bambina, il suo abito bianco, penso mi ferisca e riempia di rabbia ogni volta che la riporto alla mente.
Da figlio vorrei ridarle quei sogni, vorrei rassicurarla che non è successo nulla, che il suo abito è ancora lì, che non le hanno rubato il futuro, quando invece sono consapevole che purtroppo è così.
Lui mi riporta sempre alla drammaticità della storia, a quella politica della rappresaglia che ho letto nei libri al liceo, ma che lui, il mio “bambino di 88 anni”, ha vissuto sulla sua pelle, quando l’esercito alleato, ma che stava perdendo terreno, prese un gruppo di ragazzi e diede loro in mano delle vanghe per scavarsi le proprie fosse.
Non so in quale specifico momento di rivalsa per chissà quale danno subito si era imbattuto quel ragazzino di dieci anni o poco più.
Fatto sta che se sono qui è perché poi qualcuno quel gruppo di giovani uomini lo fece scappare nottetempo, permettendo a lui di raccontarmelo da adulto.
Sarà che da bambini si ha sempre voglia di farsi raccontare un lieto fine, che sappiamo bene in una guerra non ha certo il sapore e i colori di una favola, ma io l’ho sempre incalzato per sapere se davvero questo straniero in terra italiana fosse così cattivo come immaginavo e come vedevo nei film di guerra hollywoodiani.
E alla mia domanda se si ricordasse di qualcuno in particolare, la risposta è sempre stata la stessa, cioè di quel caporale che gli portava il cioccolato e che in un’italiano stentato gli parlava dei figli che aveva a casa.
Perché in una guerra, qualunque siano le cause, i popoli che si scontrano, le diverse ideologie, non ci sono mai vincitori o vinti, buoni o cattivi.
A perdere è la gente comune, con le sue speranze, i suoi affetti, le sue tante storie.
Questo valeva 75 anni fa, e vale anche oggi. E i miei due bambini me lo dicono sempre.