Ogni forma d’arte ci piace per le emozioni che riesce a trasmettere.
Essendo una rappresentazione soggettiva la percezione che ne abbiamo è diversa da persona a persona.
Un casus belli riguarda Roberto Bolano scrittore cileno cittadino del mondo morto a 50 anni a Barcellona.
La sua vita è stata un romanzo: scappato dal suo paese dopo il colpo di stato di Pinochet, si è rifugiato in Argentina per poi proseguire la sua vita di errante in Brasile, Messico e infine Europa.
Ha incontrato scrittori, poeti, puttane e assassini; ha probabilmente amato molto e di questa sua vita sono intessute le sue storie.
Bolano a prima vista sembra non raccontare niente: pezzi di vita osservati per un tratto e poi abbandonati come se una lente posata sul mondo si fermasse per un istante e poi improvvisamente si spostasse su altro.
L’accusa è quella di scrivere in maniera sterile, un puro esercizio letterario vacuo definito anche con una certa faciloneria “pippa mentale”.
Credo che in questo caso intervenga la sensibilità personale nell’affrontare un autore del genere e cioè cosa uno si aspetta dalla lettura di un libro.
La trama nel suo caso è il veicolo per raccontare le persone che vivono questo mondo, personaggi in primo piano che si fanno da parte per lasciare per un attimo la scena a quelli secondari per poi essere lasciati al loro destino.
E nel romanzo più conosciuto, “2666” le terre del Sonora al confine tra Messico e Stati Uniti diventano lo spazio aperto dove frammenti di vita vengono vivisezionati quasi al parossismo come se nelle esperienze delle persone si trovasse il fine ultimo di tutte le cose.
E nelle loro esperienze ritroviamo le nostre, specchio riflesso di quei frammenti che fanno parte del nostro essere.