“The eye has to travel”. Titolo affascinante di un docu-movie del 2011 dedicato alla storica direttrice di Vogue Us degli anni Sessanta Diana Vreeland. Un’espressione amata molto dall’inventrice del Met Ball, ancora prima che si chiamasse così, responsabile d’aver portato all’interno del Metropolitan Museum, quando dirigeva il Costume Institute, una mostra dedicata ad un personaggio come Yves Saint Laurent, francese, vivo e all’apice della carriera, cosa non molto comune per la culla della cultura americana.
La Vreeland sosteneva che gli occhi, quelli veri o metafora della mente, dei nostri neuroni, hanno bisogno di viaggiare, di nutrirsi di immagini, di sperimentare paesaggi nuovi, di volare sui quadri alle mostre, sugli abiti di chi incrociamo sul nostro cammino, di vedere tanto e il più spesso possibile. E la signora che a settanta e passa anni si trovava ancora a qualche soirée allo Studio 54, con Warhol, Bianca e Halston, non si fece mancare viaggi esotici e voli pindarici, non li fece mancare a chi leggeva i suoi folli e geniali suggerimenti di stile, quando da caporedattore di Bazaar scriveva:”Perché non lavi i capelli biondi del tuo bambino con lo champagne, che li rende ancora più biondi?”, e a chi sul suo Vogue poi seguì i viaggi, veri e stilosissimi, della supermodel Veruschka in Mongolia e così via.
Io per anni ho rifiutato questa filosofia, mi sono trincerato nei tanti problemi familiari e lavorativi per non uscire dal mio solito tran tran, limitando a nutrire gli occhi di immagini su instagram, di viaggi e vacanze altrui, di redazionali sulle riviste, di film in dvd. Mi ripetevo, forse solo parzialmente a ragione, che gli occhi possono viaggiare con l’immaginazione e con la cultura, anche stando nel proprio bozzolo protettivo.
Poi dopo un’estate passata a piangermi addosso per aver perso una cosa a me cara, ma che era figlia di una reiterata e forse noiosa routine, decido di pensare ‘out of the box’, di guardare al di là del mio orticello, e di accettare un’offerta che mi porta in un luogo dove non sono mai stato, che mi costringe a spostare un po’ la mia traiettoria e rivedere quello che ho fatto in questi anni.
É così che un giorno, dopo due aerei presi, mi trovo davanti ad una meravigliosa palazzina Liberty e vengo folgorato dall’architettura e dall’arte esposta, dalla vegetazione rigogliosa e per me inconsueta. Inizio a pensare a chi può aver vissuto lì in passato e ad immaginare possibili scenari per redazionali di moda incredibili. Mi sento elettrizzato e rinvigorito.
E improvvisamente é tutto chiaro e ho capito.
Ho ripensato a Diana, aveva sempre avuto ragione lei e io torto marcio. L’occhio deve sì viaggiare, abbracciare l’ignoto, volarsene via.
Anche se questo ‘ignoto’ é banalmente dietro l’angolo, ma comunque fuori da quel safe spot in cui ti sei crogiolato per anni.
Postilla: cosa c’é di brutto in tutto questo?
Forse solo i cinquanta minuti di ritardo del volo Alitalia al mio ritorno. Chissà se Diana avrebbe espresso il suo disappunto o si sarebbe limitata a sfogliare svogliatamente in attesa una rivista competitor.
Ok, questa é tutta un’altra storia. Però, quanto é divertente immaginarla piena di gioielli e sicuramente vestita di rosso e con qualche dettaglio maculato, seduta oggi su una poltroncina di Fiumicino?