Più volte quando mi hanno intervistato, neanche io fossi questa celebrity, mi son trovato a raccontare la stessa storia di come da bambino mi sono appassionato allo stile, gli amici più cari mi hanno accusato di essere molto noioso in questo, perché tendo ad usare sempre le stesse parole, e fra queste ricorre sempre che ero un bambino molto solo.
Sia chiaro non siamo nel libro “Cuore”, io son lontano dai sentimenti nobili di un piccolo eroe di De Amicis, semplicemente avevo due adorabili genitori con ritmi lavorativi pesantissimi, una sorella di undici anni più grande, per cui io ho avuto le chiavi di casa a sette.
Ero affidabile e buono, mi piazzavo davanti alla tele e la mia testa partiva per mondi lontani e bellissimi grazie ai film in bianco e nero, alla vecchia Hollywood.
Nel mio quartiere solo bambine, appena più grandi di me, ben presto mi stancai di giocare a “Barbie, reginetta del ballo”, anche se avevo una naturale predisposizione per finire alla Prom Night con il personaggio di Alan, cercai amici coetanei, purtroppo con poco successo.
Da sempre aperto agli altri, al sorriso, ad un ciao, ciarliero e paffutello, passavo da insuccesso ad insuccesso.
Ricordo ancora quando un mio compagno di scuola se ne andò schifato da casa, perché io avevo proposto come gioco un meraviglioso teatrino delle marionette, interamente di carta, che orgoglioso avevo ritagliato da un libro pop-up (che ovviamente gettai via dopo la reazione schifata dell’altro bambino, ma ammettetelo: quanto ero avanti?).
La diversità te la porti come un logo sulla pelle, non la vedi tu, la vedono gli altri.
E probabilmente io ero pieno di simboli che neanche una borsa di Louis Vuitton! Risibile nella mia voglia di piacere, di trovare qualcuno con cui scambiare opinioni, non consapevole che ai più sarebbe interessato un confronto sulle partite della domenica, più che sull’outfit sfoggiato dalla Rettore a Discoring.
La vita però non è un meraviglioso e perfetto quadro di ballo delle “Zigfield Folies” o di Fred e Ginger, che io amavo tanto, non perde occasione per farti capire certe cose, anche quando proprio ti rifiuti e non vuoi.
E arrivò un pomeriggio, un incontro casuale dal gelataio con un bambino che conoscevo di vista e che viveva in una strada vicino, la sensazione che il suo gruppetto di amici mi stesse sbeffeggiando, il desiderio di non essere lì, ma a casa, nel mio nido protetto.
Come se fosse stato tutto ripreso da una telecamera mi rivedo in bicicletta, pedalare forte, loro che mi rincorrono, il più gradasso che mi sorpassa e mi costringe a fermare la corsa. Altre parole nell’aria che non capivo e risate, poi un pugno, e un altro ancora. E poi il silenzio.
Non sono caduto, non ho pianto, li ho guardati stupito, la mia testa che rifiutava di cedere alle regole di un piccolo branco.
Fu proprio forse la mia espressione, che divenne disgusto per il loro essere bulli, come se li stessi giudicando per qualcosa compiuto su altri e non su di me, o semplicemente la fine per loro di un gioco divertente, fatto è che non mi fermarono quando mi rimisi sulla bicicletta e tornai a casa.
Un gruppo è tale non solo perché include, ma anche per le esclusioni che compie.
Io son cresciuto con quella sensazione di non appartenenza, di rifiuto, anche violento. E quando leggo di gesti assurdi che gli adolescenti compiono nei confronti di altri coetanei, non riesco a non chiedermi quanti di noi abbiano sperimentato momenti simili, forse non da telegiornale, ma comunque capaci di minare inevitabilmente la nostra visione del mondo, il nostro rapportarci agli altri.
Ho rivisto il ragazzino, diventato adulto, che sferrò quel pugno, mi son chiesto se ai suoi figli ha insegnato le regole del branco oppure no, e mi piacerebbe una volta avvicinarmi e dirgli che non ho smesso di essere il bambino aperto che ero, che ancora oggi non mi tiro indietro davanti al dialogo, al sorriso, ad un abbraccio.
Le sue regole non hanno cambiato lo Stefano che ero, lo hanno solo reso più consapevole.
Ed è forse una delle cose che mi rende più fiero.